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racconti di realtà, latitudine teatro

Categoria / INTERVISTE

di Paola Palombi

Che personaggi particolari, i registi. Creano mondi a partire dalla loro immaginazione utilizzando strumenti umani e materiali, li plasmano secondo le loro idee godendosi allo stesso tempo l’atto della creazione – fatta per metà di previsto e per metà d’imprevisto. Continuano a lavorarci finché non ne sono soddisfatti e poi spariscono dietro a quel che hanno generato.

Ecco, io mi sono sempre chiesta come lavorasse Stefano Furlan. Dal 2005 assisto a quasi tutte le sue produzioni teatrali, e rimango sempre impressionata dal suo lavoro sugli attori e sulla messa in scena. Spettacoli fatti di carisma, ritmo, fisicità, doveil racconto parte dal corpo, la presenza scenica, l’energia sprigionata sul palco dall’umanità dei suoi attori e la parola, che viene solo alla fine di tutto questo. Ecco perché mi piace definire il suo teatro un teatro di presenza, dove neanche lo spettatore può permettersi di assentarsi. Un teatro di contatto, dove spesso gli attori si rivolgono a te trasformandoti in un personaggio, oppure ti vengono a prendere e ti portano con loro a partecipare al gioco scenico.

Chiesi quindi a Stefano di farci una chiacchierata per Oorlandoo. Era la mia prima intervista, volevo parlare con un artista di cui conoscessi bene il lavoro. Genova 01 mi sembrava un ottimo punto di partenza per parlare del suo teatro. Uno spettacolo dalla tematica difficile e controversa, ma soprattutto, per l’Italia, di memoria ancora fresca. Gli avvenimenti del G8 di Genova, con i loro strascichi e le ferite ancora aperte, vengono raccontati sul palco sulla base del testo di Fausto Paravidino e parzialmente riarrangiati da Stefano per la realtà di Latitudine Teatro, sua compagnia e scuola teatrale. Lo mettono in scena dal 2005, e ogni spettacolo ha sempre un impatto molto forte. Io l’ho visto due volte, e in entrambi i casi sono uscita dalla sala con lo stomaco capovolto e con il cervello che frullava veloce una marea di interrogativi senza troppe risposte. Neanche a farlo apposta, negli stessi giorni, usciva al cinema il film Diaz di Daniele Vicari. Ero piena di stimoli quindi, e di domande.

Sono arrivata alla sede di Latitudine orgogliosamente armata di una piccola fotocamera compatta Canon e un cavalletto. Per me che sono di mestiere una videomaker, azzardare un’intervista con un’attrezzatura ultraleggera è stato veramente liberatorio. Niente luci, niente microfoni, niente controllo. Accendo la macchinetta e raggiungo Stefano già accomodato sul divano, scivolo sul tappeto ikea (per la terza volta da quand’ero arrivata) e scoppiamo in una risata. Così dovrebbe sempre iniziare una chiacchierata.

Poi ci siamo fatti un po’ prendere la mano. Dopo mezz’ora la memory card si è riempita e si è interrotta la registrazione. Sono tornata il giorno dopo e, in un’altra sala, abbiamo terminato l’intervista. Quello che vedete è il risultato di una lunghissima scrematura di cui abbiamo scelto le parti che ci hanno colpito di più.

 

Buona Visione.

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